ciclo di incontri - Ottobre 1999
Quaderno n. 78
Leggiamo la Scrittura. Genesi e Esodo
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“Creati in Gesù Cristo” (Ef 2,10)
La rilettura della Genesi in Paolo e Giovanni


Pasquale Pezzoli

La tematica creazionistica e adamitica della Genesi è ripresa altrove nei testi biblici, con riletture che allargano la comprensione delle pagine stesse del primo libro della Bibbia. Si pensi per esempio alla rilettura della Genesi operata dai Libri Sapienziali, nei quali si parla della sapienza personificata: «Il Signore mi ebbe con sé al principio dei suoi atti, prima di fare alcuna delle sue opere più antiche» (Proverbi 8,22); «La sapienza loda se stessa e si vanta in mezzo al suo popolo. Apre la bocca nell’assemblea dell’Altissimo e si vanta dinanzi alla sua corte celeste: “Io sono uscita dalla bocca dell’Altissimo, e come vapore ho ricoperto la terra”» (Siracide 24,1-3); «[La sapienza] è un’emanazione della potenza di Dio, un effluvio genuino della gloria dell’Onnipotente» (Sapienza 7,23).

Sono diversi i fattori che determinano la rilettura di un testo. Prima di tutto l’irruzione di un evento nuovo che genera l’intento di rivedere il passato alla luce dell’evento stesso: nel caso di Paolo e di Giovanni, si tratta dell’evento cristologico. Essi hanno davanti la storia di Gesù, in particolare la morte, come sintesi della sua storia, e la resurrezione, con l’esperienza inaudita dell’incontro con il Vivente. Non dunque una rilettura fatta attraverso un commento esegetico puntiglioso, ma la ricerca di una maggiore comprensione di un fatto inserito in un contesto preciso e più ampio.

In secondo luogo, bisogna tenere presente che il popolo d’Israele è abituato a rileggere la propria storia e le proprie tradizioni, a ritrovarci sempre nuovi stimoli e verità, a ri-conoscere il volto di Dio attraverso la ripresa di un testo. Poiché Paolo e Giovanni vivono in questo ambiente, i loro scritti sarebbero incomprensibili se, nell’avvicinarsi ad essi, non si tenesse conto di questo elemento.

In terzo luogo, si danno riletture quando coloro che leggono si trovano di fronte a problematiche nuove che portano a ripensare la figura di Cristo come figura creatrice (è quanto avviene, ad esempio, nella lettera ai Colossesi).

Paolo e Giovanni riprendono abbondantemente sia il tema della creazione sia quello riguardante Adamo, qualche volta in modo palese e altre volte in modo più nascosto.

1. Paolo

In 2Cor 4,5-6, parlando della sua vocazione, Paolo presenta il suo incontro con Cristo attraverso categorie di creazione; dice infatti: «Noi non predichiamo noi stessi, ma Cristo Gesù quale Signore, e quanto a noi ci dichiariamo vostri servi per amore di Gesù; perché il Dio che disse: “Splenda la luce fra le tenebre”, è quello che rifulse nei nostri cuori per far brillare la luce della conoscenza della gloria di Dio che splende nel volto di Gesù Cristo». Come si vede, il richiamo al Dio creatore, colui che nel libro della Genesi dice «sia la luce», viene usato da Paolo per parlare della sua personale esperienza di chiamata, del suo incontro con il Cristo (anche se non è da tutti condiviso che questo testo si rifaccia a quel momento), come a suggerire che, ogniqualvolta Dio si manifesta ad un uomo, siamo di fronte a un atto di creazione. Quando, poi, qualche riga dopo (in 2Cor 5,17), egli scrive: «se uno è in Cristo, è creatura nuova; le vecchie cose sono passate, ne sono nate di nuove!», sottolinea esplicitamente che quell’esperienza di “nuova creazione” si applica davvero a ogni uomo che incontra il Signore: se uno è in Cristo, c’è un nuovo atto di creazione.

In 1Cor 8,6 («per noi c’è un solo Dio, il Padre, dal quale sono tutte le cose, e noi viviamo per lui, e un solo Signore, Gesù Cristo, mediante il quale sono tutte le cose, e mediante il quale anche noi siamo») Paolo parla del Dio Unico da cui tutto proviene, affiancato però da Gesù Cristo, in virtù del quale esistono tutte le cose; c’è dunque il Dio creatore («dal quale [ex ou] sono tutte le cose») e il Cristo a cui pure viene attribuita una funzione nella creazione («mediante il quale [di’ou] anche noi siamo»). Il prof. N. T. Wright, commentando questo testo, sostiene che qui Paolo compie una riscrittura dello Shemà Israel (Deut 6,4): il «Signore è nostro Dio» di Deuteronomio diventa «per noi c’è un solo Dio» e «il Signore è uno solo» di Deut. diventa «per noi un solo Signore Gesù Cristo». Paolo dunque ritiene di dover (e poter) inserire Gesù accanto a Dio, nella professione di fede in quel Dio unico che l’ebreo proclama tutti i giorni recitando lo Shemà!

Il linguaggio della creazione e quello adamitico ricorrono in Paolo in più contesti. Schematizzando un po’, potremmo dire che, nelle prime lettere, e in particolare in quelle ai Corinti, il tema del Cristo creatore appare soprattutto in relazione al discorso escatologico: Cristo è colui che sottomette a Dio ogni cosa e quindi è colui che realizza, con la resurrezione, il compiersi perfetto di una nuova creazione (1Cor 15). Ad un secondo livello, sempre appartenente alle lettere autentiche di Paolo (Romani), si utilizzano le categorie della creazione per parlare dell’esperienza presente del cristiano. Ad un terzo livello, che letterariamente potrebbe non appartenere più a Paolo ma ad un discepolo della scuola paolina (Colossesi ed Efesini), si parla più diffusamente della funzione creatrice di Cristo fin dalla prima creazione: Cristo come scopo e vocazione del creato e dell’uomo.

a. Al primo livello, quello della prima lettera ai Corinti, laddove si parla della resurrezione, il discorso di Paolo parte dell’annuncio fondamentale del cristianesimo, il kerygma: «Vi ho dunque trasmesso, anzitutto, quello che ho ricevuto, che Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, e che fu sepolto, e fu risuscitato il terzo giorno, secondo le Scritture; e che apparve a Cefa, e poi ai Dodici» (1Cor 15,3-5); da questo annuncio Paolo ricava, nei vv. seguenti, la conseguenza che anche per il cristiano è aperta la via della resurrezione. Egli dunque afferma che ci sarà la resurrezione e, alla domanda: “come resuscitano i morti?”, risponde con queste parole: «Stolto, ciò che tu semini non prende vita se prima non muore; e quello che semini non è il corpo che nascerà, ma un semplice chicco di grano o di altro genere: Dio gli darà un corpo come vuole, a ciascun seme il proprio corpo. Non ogni carne è la medesima carne; altra è la carne di un uomo e altra quella di un animale; altra quella di un uccello e altra quella di un pesce. Vi sono corpi celesti e corpi terrestri; altro è lo splendore dei corpi celesti, e altro quello dei corpi terrestri. Altro è lo splendore del sole, altro quello della luna, altro quello delle stelle: ogni astro differisce dall’altro nello splendore. Così anche la risurrezione dei morti: si semina nella corruzione, si risorge nell’incorruttibilità; si semina nello squallore, si risorge nello splendore; si semina nell’infermità, si risorge nella potenza; si semina un corpo naturale, risorge un corpo spirituale.» (1Cor 15,36-44).

Paolo si trova di fronte ad una domanda forte, per la quale non c’è risposta se non per analogia, cioè rimandando all’opera creatrice di Dio, alla varietà di questa opera creatrice che fa concludere alla possibilità di Dio di creare una cosa nuova. Evidentemente queste non sono spiegazioni atte a soddisfare la curiosità del lettore: Paolo non risponde con descrizioni della nuova condizione dei risorti, ma rifacendosi alla tematica biblica di Dio creatore, e appellandosi alla sua potenza creatrice che si manifesta già nella varietà degli esseri viventi.

C’è poi la ripresa del tema di Adamo: «Sta scritto: il primo uomo, Adamo, divenne anima vivente, ma l’ultimo Adamo divenne spirito vivificante. Non vi fu prima il corpo spirituale, ma il naturale, poi lo spirituale. Il primo uomo tratto dalla terra è di polvere, ma il secondo uomo viene dal cielo. Qual è l’uomo di polvere, così sono quelli di polvere, ma qual è il celeste, così saranno i celesti. E come abbiamo portato l’immagine dell’uomo di polvere, così porteremo l’immagine dell’uomo celeste» (1Cor 15,45-49). La figura di Adamo viene qui ripresa da Paolo in chiave cristologica: Cristo diventa il nuovo Adamo perché è spirito datore di vita, è la figura ultima dell’adam, che renderà possibile per ogni uomo ricevere la sua forma nuova e definitiva. Nel testo di Genesi si dice: «il Signore Dio modellò l’uomo con la polvere del terreno e soffiò nelle sue narici un alito di vita; così l’uomo divenne un essere vivente» (2,7). Ebbene, con una esegesi tipica del suo tempo, Paolo sdoppia la frase della Genesi, applicando la seconda («divenne un essere vivente») all’Adamo primordiale e la prima («soffiò nelle sue narici un alito di vita») a Cristo, definito da Paolo «ultimo Adamo»: ne risulta che il primo Adamo è il secondo, mentre l’ultimo Adamo (Cristo) è il primo, cioè colui che Dio ha avuto in mente fin dall’inizio; Cristo viene definito l’ultimo Adamo per indicare colui verso il quale l’uomo tende per ricevere la sua forma definitiva.

b. Nella lettera ai Romani prevale la riflessione sul presente: la nuova creazione è già in atto. Al di là di Rm 5,12-21, dove c’è il famoso paragone tra Cristo e Adamo, mi soffermerò su passi in cui il riferimento alla creazione appare meno evidente.

Fin dall’inizio la lettera riprende il tema della creazione: «L’ira di Dio si manifesta dal cielo sopra ogni empietà e malvagità di quegli uomini che soffocano la verità nell’ingiustizia. Poiché ciò che è noto di Dio è manifesto in loro; infatti, dopo la creazione del mondo Dio manifestò ad essi le sue proprietà invisibili, come la sua eterna potenza e la sua divinità, che si rendono visibili all’intelligenza mediante le opere da lui fatte. E così essi sono inescusabili, poiché, avendo conosciuto Dio, non lo glorificarono come Dio né gli resero grazie, ma i loro ragionamenti divennero vuoti e la loro coscienza stolta si ottenebrò. Benché si dichiarino sapienti, sono diventati stolti, e hanno mutato la gloria del Dio incorruttibile in immagini simili a quelle dell’uomo corruttibile, di uccelli, di quadrupedi e di rettili» (Rm 1,18-23).

Com’è noto, il nucleo centrale della lettera ai Romani è l’annuncio che in Cristo gli uomini hanno ottenuto la giustizia («Ma ora, a prescindere dalla legge, la giustizia di Dio si è rivelata, testimoniata dalla legge e dai profeti; la giustizia di Dio, per mezzo della fede in Gesù Cristo, per tutti coloro che credono, poiché non c’è distinzione», Rm 3,21-22). Il punto di partenza di Paolo è, dunque, la grazia ottenuta in Cristo: in Cristo siamo stati salvati e ogni uomo, senza eccezione, ottiene la giustizia, cioè il giusto rapporto con Dio. A partire da qui, Paolo fa una serie di riflessioni che coinvolgono la tematica della creazione di Adamo. Nel brano citato sopra si dice: «dopo la creazione del mondo Dio manifestò ad essi le sue proprietà invisibili, come la sua eterna potenza e la sua divinità, che si rendono visibili all’intelligenza mediante le opere da lui fatte» (Rm 1,20); qui Paolo afferma che, per ogni uomo, Dio è l’orizzonte della sua vita; il riferimento alla creazione gli serve a ribadire il concetto che Dio è il Dio di tutto e di tutti, il punto di riferimento per ogni uomo e che ogni uomo ha la possibilità di entrare in rapporto con Dio.

Il problema è che l’uomo non dà gloria a Dio e qui ritorna la tematica di Adamo che riappare applicata ad ogni uomo. Paolo parla di uomini che soffocano la verità nell’ingiustizia» (Rm 1,18) e che quindi «sono inescusabili, poiché, avendo conosciuto Dio, non lo glorificarono come Dio né gli resero grazie» (Rm 1,21); in ogni uomo cioè c’è la condizione di Adamo, il quale è la figura dell’uomo peccatore che non dà gloria a Dio, perché ritiene che la sua gloria consista nello staccarsi da Dio e sospetta che Dio sia un avversario e quindi gli voglia togliere peso e verità.

In questa situazione, ecco invece l’azione di Dio: «quelli che ha preconosciuti, li ha pure predestinati a essere conformi all’immagine del Figlio suo, affinché egli sia il primogenito tra molti fratelli; e quelli che ha predestinati li ha pure chiamati; e quelli che ha chiamati li ha pure giustificati; e quelli che ha giustificati li ha pure glorificati» (Rm 8,29-30). Il sospetto che l’uomo ha su Dio (il sospetto adamitico) è destinato a cadere di fronte all’opera di Cristo, il quale mostra che Dio dà gloria a quell’uomo che non vorrebbe darla a Lui, perché sospettoso nei suoi confronti. L’opera di Dio è dunque rendere conformi all’immagine del Figlio suo (riferimento alla creazione) e rendere gloria all’uomo (Adamo) nonostante egli, per sospetto, si allontani da lui.

L’immagine dell’uomo che perverte l’immagine di Dio l’abbiamo già vista nel brano iniziale: «Benché si dichiarino sapienti, sono diventati stolti, e hanno mutato la gloria del Dio incorruttibile in immagini simili a quelle dell’uomo corruttibile, di uccelli, di quadrupedi e di rettili» (Rm 1,22-23): ciò che deturpa l’immagine di Dio è l’idolatria, per la quale l’uomo confonde l’immagine divina con la propria immagine, corrotta, o con quella degli animali. Gli uomini invece sono «predestinati a essere conformi all’immagine del Figlio suo» (Rm 8,29): Cristo è l’immagine dell’uomo perfetto come Dio l’ha pensato fin dall’inizio. Mentre l’uomo vive continuamente la tentazione di essere quell’Adamo che non vuole dare gloria a Dio, in Cristo egli è di fronte all’immagine autentica dell’uomo, alla quale egli tende e alla quale ha accesso (è destinato ad esserne conforme).

La tematica della creazione fa capolino anche nella trattazione paolina della figura di Abramo: «senza vacillare nella fede, considerò il suo corpo già privo di vitalità, avendo circa cento anni, e la devitalizzazione del seno materno di Sara. Fondato sulla promessa di Dio, non esitò nella incredulità, ma si rafforzò nella fede e diede gloria a Dio, fermamente persuaso che egli è anche potente per realizzare quanto ha promesso. Proprio per questo la fede gli fu computata a giustificazione» (Rm 4,19-22). Come si vede, qui Abramo vince il sospetto di Adamo: come Adamo, egli poteva sospettare che il volto di Dio fosse il volto di colui che promette senza mantenere (per non dire di quando gli chiederà il figlio già nato); eppure, Abramo vince il sospetto adamitico, si rafforza nella fede e dà gloria a Dio. La fede di Abramo viene presentata in termini che richiamano la creazione: «Infatti sta scritto: Ti ho costituito padre di molte nazioni, davanti a Dio, cui egli credette come a colui che dà vita ai morti e chiama all’essere le cose che non sono» (Rm 4, 17); Paolo accosta due temi diversi, uno soteriologico e uno creazionistico: “risurrezione dei morti” e “chiamare alla vita le cose che non sono”. E non è difficile scorgere sotto queste parole un accenno al mistero di Cristo (alla sua morte e risurrezione).

Come è evidente, siamo di fronte ad una tematica unitaria: Adamo è colui che non dà gloria a Dio, Abramo è già l’uomo nuovo che dà gloria a Dio, Cristo è colui nel quale si scopre la vera immagine di Dio che l’uomo è chiamato a diventare riflettendo in sé la gloria di Dio.

c. Il terzo livello è quello della lettera ai Colossesi in cui Paolo (o, forse meglio, qualcuno della sua scuola), provocato dal clima di intensa (ma ambigua e problematica) religiosità della chiesa di Colosse, dà vita all’inno famosissimo: Cristo «è l’immagine del Dio invisibile, Primogenito di tutta la creazione; poiché in lui sono stati creati tutti gli esseri nei cieli e sulla terra, i visibili e gli invisibili: Troni, Signorie, Prìncipi, Potenze. Tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui; egli esiste prima di tutti loro e tutti in lui hanno consistenza. E’ anche il capo del corpo, cioè della chiesa; egli è principio, primogenito dei risuscitati, così da primeggiare in tutto, poiché piacque a tutta la pienezza di risiedere in lui e di riconciliarsi, per suo mezzo, tutti gli esseri della terra e del cielo, facendo la pace mediante il sangue della sua croce.» (Col 1,15-20). Cristo è il risorto («primogenito dei risuscitati»), ma è anche colui nel quale avviene la creazione («primogenito di tutta la creazione»). Si parla dell’atto creatore di Dio come un atto nel quale è implicato Cristo («in lui [en auto] sono stati creati tutti gli esseri … tutte le cose sono state create per mezzo di lui [dia autou] e in vista di lui [eis auton]»).

Il riferimento è alla tradizione sapienziale, in cui vige l’equazione sapienza = legge, coppia che era presente quando Dio ha creato il mondo: Dio crea il mondo con la parola = Dio crea il mondo con la sapienza = Dio crea il mondo con la legge. La legge è lo specchio nel quale Dio guarda per creare il mondo, è il grande dono che intende dare all’umanità creata. Paolo, dunque, legge queste categorie sapienziali in chiave cristologica: Cristo è colui nel quale è stato creato il mondo e verso il quale cammina l’umanità tutta, chiamata a riconoscersi in Cristo. Se dunque il mondo è stato creato da Dio in Cristo, il mondo esce buono dalle mani di Dio. Se Cristo è colui verso il quale cammina la creazione, tutta la creazione è chiamata a riconoscersi in Cristo: nel suo essere figlio nel Figlio, l’essere umano trova la sua vocazione.

2. Giovanni

Anche per Giovanni il punto di partenza è l’annuncio cristologico, che egli formula sostanzialmente in questi termini: in Cristo, nella sua storia, nella sua morte e risurrezione, è dato a noi di vedere il volto di Dio. Cristo è la rivelazione di Dio. Non si può parlare di Dio senza parlare di Gesù Cristo e viceversa. «Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo figlio unigenito» (Gv 3,16): Dio ha il volto di colui che ha dato il Figlio. La vicenda di Gesù dice Dio perfettamente.

Nel prologo allora si giunge a una delle formulazioni cristologiche più alte, dove accanto all’eterno Dio si colloca il Logos creatore: «Nel principio era la Parola, la Parola era con Dio, e la Parola era Dio. Essa era nel principio con Dio. Ogni cosa è stata fatta per mezzo di lei; e senza di lei neppure una delle cose fatte è stata fatta. In lei era la vita, e la vita era la luce degli uomini. La luce splende nelle tenebre, e le tenebre non l’hanno sopraffatta» (Gv 1,1-5). Il testo comincia con «nel principio era la Parola, la Parola era con Dio» e termina con «nessuno ha mai visto Dio; l’unigenito Dio, che è nel seno del Padre, è quello che l’ha fatto conoscere» (Gv 1,18). Il discorso deve partire di per sé dalla fine: la relazione eterna del Figlio con il Padre viene rivelata dal suo essergli rivolto. Laddove la Genesi cominciava dicendo: «In principio Dio creò il cielo e la terra» (Gen 1,1), Giovanni dice che, prima di quell’in principio, c’è la vita eterna di Dio che è una vita di “relazione” tra Padre e Figlio, vita che è stata rivelata nella vicenda di Gesù. Il vero inizio, il vero en arché che supera il bereshit, non è la creazione, ma questa relazione.

Il termine Logos richiama indubbiamente la parola con cui Dio nella Genesi crea ogni cosa; qui ritorna come parola eterna che vive accanto a Lui ed è creatrice come Lui; non è più soltanto Dio che crea con la sua parola, ma «ogni cosa è stata fatta per mezzo di lei». Nella rilettura giovannea, dunque, il Padre è presente come origine della creazione, mentre il Figlio è presente come mediatore di creazione.

L’interesse di Giovanni è per la universalità della salvezza data in Gesù. Lo si vede bene al v. 3: dopo aver detto che Cristo è mediatore di creazione per ogni cosa («senza di lei neppure una delle cose fatte è stata fatta»), si dice «ciò che era avvenuto in lei era la vita»: all’interno di un orizzonte universale, c’è l’irruzione della vita, una vita per tutti; infatti, «la luce splende nelle tenebre, e le tenebre non l’hanno sopraffatta».

A ben vedere questo non è più il racconto della creazione, ma il racconto della vita eterna di Dio, del Logos rivolto a Dio, la sua vita di relazione da cui nasce il creato: Dio come principio, Cristo come mediatore di creazione. Giovanni invita a leggere il suo vangelo su questo sfondo di creazione il che per lui equivale a dire: il racconto di verità e di vita che adesso seguirà ha interesse universale, si tratta di quella verità, vita e luce che interessa tutti gli uomini.

È facile mostrare il parallelismo tra questo testo e Siracide 24 che avevamo citato all’inizio: «Io sono uscita dalla bocca dell’Altissimo, e come vapore ho ricoperto la terra. Ho abitato nelle altezze del cielo, avevo il trono in una colonna di nubi. Io sola ho fatto il giro del cielo e ho passeggiato nel profondo degli abissi. Sui flutti del mare e su tutta la terra, in ogni popolo e nazione avevo dominio. Ciò nonostante ho cercato un luogo di quiete, qualcuno, nel cui podere sostare. Allora il Creatore di tutto mi diede un comando, il mio Creatore mi ha dato una sede per riposare e mi ha detto: Metti tenda in Giacobbe, sia in Israele la tua eredità.» (Sir 24,3-8). Chiaro il parallelo con: «E la parola si è fatta carne e ha posto la sua tenda fra noi» (Gv 1,14).

Il prologo dunque è una grande riscrittura del tema creazionistico, il quale viene riletto, passando attraverso i libri sapienziali, alla luce di ciò che appare in Gesù Cristo; a sua volta però, ciò che è apparso in Cristo non sarebbe comprensibile senza la ripresa di quei testi: si ri-conosce Dio in Gesù Cristo anche rileggendo i testi antichi.

Su questo sfondo, mi sembra verosimile vedere in Gv 1,19-2,11 una rilettura della settimana creazionale. I primi passi di Gesù, del Battista e dei discepoli sono inseriti in un arco di tempo di sei giorni («il giorno dopo»: 1,29; «il giorno dopo»: 1,35; «il giorno dopo»: 1,43; «tre giorni dopo»: 2,1); si tratta di un chiaro segno che l’evangelista vuole rileggere i primi passi del vangelo alla luce dell’atto di creazione di Dio, come l’inizio della realizzazione di una nuova creazione. Se nel prologo si parla dell’inizio (en arché) riconducendo alla vita intima di Dio, vita che interessa tutto il creato (è per questo che è stato creato), adesso si dice che questa vita intima inizia a raccontarsi, appunto nelle vicende incluse nella settimana iniziale. Si tratta di una sottolineatura del tutto singolare all’interno dei vangeli, nei quali non esiste un’eccessiva preoccupazione per la cronologia (l’altro caso in cui è presente una scansione settimanale è il racconto della passione di Marco 11-16). L’ultimo giorno, il giorno delle nozze (2,1-11), è il giorno della creazione dell’uomo; in quell’atto di Gesù che ridà il vino, che ricostituisce la gioia laddove sta venendo meno, si riconosce Cristo che ricostituisce l’umanità nuova, che dà inizio ad una umanità che vive davvero («ciò che avvenne in Lui era la vita»). Al termine della prima settimana del ministero di Gesù, si verifica la manifestazione di questa vita, che, sebbene sia ancora soltanto un segno, è già la manifestazione della sua gloria e della sua intenzione di parlarci di un Dio che dà vita, che ama l’uomo e non lo umilia. Ecco quindi che il «non è ancora giunta la mia ora» di Cana rimanda all’ora della gloria di Gesù, cioè la sua croce: questa attività di ri-creazione viene realizzata pienamente da Gesù nel momento in cui, sulla croce, manifesta la perfezione dell’amore («li amò sino alla fine»: 13,1). È sulla croce che si compie il sesto giorno della creazione.

Questa rilettura di Giovanni è una ripresa della Genesi alla luce degli eventi nuovi e della sua profonda meditazione ed è un modo sicuramente originale per presentare ciò che avviene in Cristo come mistero di bellezza, di luce, di vita.

Conversazione tenuta presso la Fondazione Serughetti La Porta il 25 ottobre 1999

Testo non rivisto dall’Autore


 

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